I Corpi civili di pace come frontiera di civiltà
Nel 1992, don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente di Pax Christi, sfidò l’assedio di Sarajevo marciando con 500 pacifisti. I “beati costruttori di pace” partirono il 7 dicembre da Ancona, raggiunsero la capitale bosniaca l’11 dicembre. C’erano militanti nonviolenti, sacerdoti, attivisti di sinistra, alcuni sindaci. La marcia di Sarajevo sarà una delle ultime azioni di Don Tonino, vescovo rivoluzionario, amico degli ultimi eppure capace di far tremare i potenti, nominando le ingiustizie e portando, nei posti più scomodi, esempi concreti di solidarietà e di cooperazione.
Quello di Don Tonino era un “pacifismo concreto”, come lo definì Alexander Langer: un pacifismo ostile agli slogan e alle chiacchiere dei salotti televisivi, fatto di impegno nei luoghi in cui il potere fa sentire più forte la sua fame di vite. Era un pacifismo non neutrale, e per questo osteggiato da chi, dentro quelle geometrie di potere, si sentiva comodo e al sicuro.
Nei diari della marcia di Sarajevo, che Don Tonino donerà al giornale Il Manifesto, il vescovo scriveva: “È davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? […] Ma in questa guerra allucinante chi ha veramente torto e chi ha ragione? E qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza: le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono”.
Alexander Langer scrisse una lettera a Don Tonino il 16 dicembre, dopo aver letto il diario pubblicato sul Manifesto. Espresse “rispetto e ammirazione”, riconoscendo che quell’iniziativa aveva portato a Sarajevo “qualcosa della migliore Europa”, riaccendendo “stimoli di pace e di vita”. Nel 1994, Langer, deputato al parlamento europeo, propose la creazione di un Corpo civile di pace europeo. Esso, secondo Langer, avrebbe avuto un’importanza fondamentale nel contrastare le guerre, mediando fra i soggetti, “trovando” e “denunciando” le cause dei conflitti, senza imporsi sulle parti. Per questo, coloro che lo avrebbero costituito, avrebbero dovuto dimostrare competenze complesse e variegate, conseguibili soltanto attraverso un addestramento adeguato.
Con la legge di stabilità del 2014, finalmente furono istituiti in Italia in via sperimentale i Corpi civili di pace, che venivano legati al Servizio civile nazionale. Trattandosi, infatti, di una sperimentazione, fu deciso che avrebbero fatto parte dei Corpi civili di pace i giovani di Servizio civile, i quali sarebbero stati impiegati in progetti speciali proposti dagli enti, in collaborazione con gli attori locali.
La sperimentazione, insomma, si connetteva con i valori che avevano segnato la storia del Servizio civile. Esso affonda le sue radici nella scelta, fatta da tanti giovani, di obiettare di fronte all’obbligo di prestare il servizio militare. Il Servizio civile diventerà un autonomo istituto repubblicano, che darà voce alla volontà di quei giovani di impegnarsi al servizio della comunità attraverso modalità diverse rispetto alla difesa armata. Il Servizio civile significa oggi per milioni di giovani intraprendere un percorso di crescita e di formazione all’insegna della solidarietà, dell’impegno civile e sociale, sperimentando la possibilità di contribuire al bene comune.
L’idea di rilanciare i Corpi civili di pace acquisisce oggi una straordinaria urgenza, di fronte alle atrocità della guerra in Ucraina. Lo sta dicendo da tempo la Fondazione Langer, se ne sono fatti portavoce pezzi importanti di società civile e movimenti.
Il dibattito pubblico sembra oggi fossilizzato attorno all’inevitabilità della guerra. Gli strumenti adottati a livello europeo e internazionale non fanno che inasprire i toni, contribuendo a polarizzare le posizioni e a fomentare le parti in conflitto. La logica delle sanzioni, infatti, sembra ripiegata su un livello autoreferenziale, quello dello scontro fra Stati. C’è un unico elemento che può scompaginare le carte, facendo irruzione nello scacchiere. È il punto di vista delle donne e degli uomini che pagano il prezzo più alto della guerra, che stanno sacrificando le proprie vite e la propria libertà sotto il peso delle bombe e della violenza, fisica e psicologica.
Scegliere la via della mediazione, allora, non significa dichiararsi indifferenti rispetto a chi ha ragione e a chi ha torto, proclamare l’equivalenza delle posizioni, ignorare ragioni, colpe, fatti. Significa, piuttosto, dare priorità ad un bene maggiore, ovvero alla dignità e alla libertà dei popoli. Vuol dire spezzare innanzitutto la logica fondamentale della guerra, quella per cui il sacrificio di vite è un accidente collaterale. La mediazione, il “pacifismo concreto”, capovolge l’ordine dei fattori, si pronuncia a favore delle vittime del potere, quando esso fa sentire più forte la sua morsa, strozzando vite, orizzonti, futuro.
Rilanciare i Corpi civili di pace, come strumento contro la guerra, può essere oggi una via per opporre al monopolio della forza armata un’altra grammatica possibile, in cui tornino al centro le persone. Può, forse, essere l’unica scelta dignitosa per un’Europa che ha oggi l’opportunità di dimostrare che solidarietà e cooperazione fra i popoli non sono solo valori professati in astratto. Sono, piuttosto, principi in grado di guidare concretamente l’agire politico, come antidoto alla barbarie.